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Emilio Renzi

L’intellettuale diventato manager.

 Testimonianza per Renzo Zorzi Renzo Zorzi, scomparso lo scorso 31 gennaio 2010 a 89 anni, era un uomo molto alto, dal naso ben definito, completato da occhiali dalla spessa montatura scura. Conservò a lungo capelli neri. Responsabile dalla metà degli anni Sessanta sino alla metà dei Novanta della Direzione Relazioni culturali Disegno industriale Pubblicità della Olivetti, nella quale era stato chiamato da Adriano Olivetti subito dopo la guerra, e in seguito consulente pur sempre con ampi uffici interni, Zorzi ebbe all’apogeo sotto di sé sino a 130 persone, la maggior parte di studi, di grado e di rango. Industrial design, grafica, architettura, editoria, pubblicità, comunicazione: questi i settori che fu chiamato a dirigere e per i quali doveva scegliere persone e indirizzi, vagliare proposte, approvare risultati. Compito che assolse con mano sicura: plasmato dalle grandi scelte iniziali di Adriano Olivetti e a sua volta plasmando lo “stile Olivetti” nel mondo.
Alla continuità di fondo aggiunse nel tempo un’accorta serie di integrazioni culturali, che gli venivano dalla sua formazione umanistica, coltivata a Milano o nelle letture tra le colline del Garda ma in realtà nata nel suo Veneto degli anni Quaranta. Studente di Lettere a Padova aveva partecipato alla Resistenza tra le fila di Giustizia e Libertà (Partito d’Azione). Al congedo era andato a lavorare a Torino in una Casa editrice piccola e combattiva, la De Silva fondata da Franco Antonicelli. Un giorno gli si presenta un signore dai modi contenuti che gli porge un manoscritto dicendo: alla Einaudi l’hanno rifiutato, veda lei. Sul primo foglio erano dattiloscritte queste parole: “Primo Levi/Se questo è un uomo”. Zorzi lo fa pubblicare – per inciso, non tornò quasi mai più su questa storia. Questo, anche, era Zorzi.
Amava assai poco apparire in pubblico e nient’affatto esibirsi nelle convention aziendali e nei congressi culturali. Preferiva coltivare rapporti bilaterali. Parlava breve e basso; per contro, scriveva periodi di quindici, venti e più righe la cui sintassi, di forma vagamente francese, si edificava senza mai avvitarsi, resa anzi più salda dalla sua stessa forza ascensionale. Il suo stile di lavoro dipendeva in larga parte dal carattere schivo e per forza di cose dal posizionamento aziendale: il “riporto”, come si diceva, direttamente dal Presidente della Società. Quindi, nell’ordine, Adriano Olivetti, Bruno Visentini, Carlo De Benedetti. Nell’intera storia dell’industria italiana non si ha conoscenza di nulla del genere. Non ci si stupirà se scrivo che praticamente fummo in molti della sua Direzione a non avere con lui se non contatti rari e ritrosi.
Poiché erano agli antipodi di quella che più tardi si sarebbe chiamata la “politica degli annunci” o, più tardi ancora, “fare squadra”, le sue decisioni maturate al piano (sempre il più alto) di Palazzo Clerici, via Meravigli, via Caldera, e, per qualche tempo, anche all’ultimo piano del Palazzo Uffici 1 ad Ivrea, sembravano discendere dall’empireo sul corpo della società. E tuttavia a maggior ragione oggi, s’intende nella società italiana e internazionale di oggi, occorre dargli tutti i riconoscimenti che si merita. Se non proprio in tutti i segmenti dell’amplissimo spettro di contenuti cui doveva badare, certo nell’insieme e soprattutto nel cuore più vero, più importante, della vita attiva della Olivetti: la centralità della cultura.
Zorzi colse l’esplicito messaggio di Adriano Olivetti e lo proseguì senza proclami e persino senza pedagogia. Per dire, era il responsabile delle Edizioni di Comunità e dopo aver fatto ripubblicare l’opera teorica di Adriano ossia L’Ordine politico delle Comunità, non fece altrettanto con gli altri suoi scritti né mise a piano le edizioni critiche, l’opera omnia ecc., che difatti mancano ancora oggi. Il suo passo fu costante; non ebbe tentennamenti né “stagioni”; nei confronti delle successive ”air du temps”, non ebbe a ben vedere giudizi reattivi, ebbe riflessi semiautomatici. Una coriacea diffidenza valoriale, che non escluse aggiustamenti ben temperati.
Una generazione degli “adrianei” era ancora ben attiva nel dopoguerra (negli elenchi che sto per fare, so che sarò sommario). Nel design e nella grafica i grandi nomi erano Marcello Nizzoli e Giovanni Pintori, nell’architettura Luigi Figini e Luigi Pollini, Franco Albini e Franca Helg, gli architetti dello Studio BBPR (Belgiojoso, Banfi, Peressutti, Rogers), Carlo Scarpa, Eduardo Vittoria, Ettorino Sottsass, Marco Zanuso, Egidio Bonfante e poi Louis Kahn, Egon Eiermann, James Stirling …. Zorzi man mano integrò il settore grafico con Franco Bassi e Walter Ballmer, aprendo cioè alla scuola svizzera. Fece realizzare il sistema di Corporate Identity, forse il primo in Italia. Nel design, oltre ad Ettore Sottsass, Mario Bellini e Rodolfo Bonetto; negli allestimenti e nella costruzione dell’Identità dell’Azienda, Hans von Klier; nel design Perry King e Santiago Miranda, a fianco di Sottsass. A Pier Paride Vidari fece realizzare un libro-album che era insieme catalogo e storia della Società. Tra i copywriter, a Franco Fortini fece succedere Giovanni Giudici. Tra gli architetti, confermò Zanuso e scelse Eiermann per la sede della Deutsche Olivetti a Francoforte, Cappai e Mainardis per la Ivrea fuori di fabbrica. Nel primo caso, l’apice del razionalismo; nel secondo, nuovi colori e nuove forme.
Cenni sommari… Zorzi nel frattempo un lungo tempo dirigeva praticamente da solo la Casa editrice e la rivista, che sino a tutti gli Ottanta ebbero un loro profilo di alta cultura in una saggistica che si svolgeva tra gli studi sulle istituzioni e la critica d’arte: nell’una sentivi l’eredità di Adriano, nell’altra la passione di Zorzi. Più che nella Olivetti l’inner circle di Zorzi risiedeva infatti a Roma (Bruno Zevi), a Verona (Licisco Magagnato). Memorabile l’attacco che portò sulle colonne del “Sole 24 Ore” a Paolo Volponi che nel romanzo “Le mosche del capitale”, dedicato pur sempre ad Adriano Olivetti “maestro dell’industria mondiale”, aveva (o pareva) aver fustigato lotte intestine fra inapprezzabili alti dirigenti (Bruno Visentini?). Chi ha provato a rileggere il dossier tende a dar ragione a Volponi.
Fu forse nelle mostre che Zorzi diede le migliori prove di gusto, coraggio e senso dell’innovazione. Innanzitutto, NON erano sponsorizzazioni: una pratica cui aziende, banche ecc. diedero e danno innumerevoli prove di saper più solo staccare assegni. A prescindere cioè da competenze, approfondimenti, affinità. Le sue mostre Olivetti le pensò, organizzò in ogni parte, comunicò e portò nel mondo, essa e essa solo. Il che voleva dire: Renzo Zorzi, e i suoi diretti collaboratori.
Cominciò con la mostra degli affreschi staccati dalle chiese di Firenze dopo l’alluvione del 1966 e continuò con la dimostrazione di come un personal computer Olivetti avvantaggiasse i professori di Architettura di Firenze a comprendere finalmente i calcoli del Brunelleschi per la cupola di S. Maria del Fiore in Firenze. A metà degli anni Settanta era un contributo tutt’altro che frequente. È a dire: la cultura di un’azienda che sa cos’è cultura è vicina all’arte nella tragedia. E, signori, sta nascendo l’informatica umanistica. Seguirono i restauri della Cappella Brancacci a Firenze (Masaccio, Masolino e Filippino Lippi), dell’Ultima Cena di Leonardo a Milano, di Spanzotti a Ivrea, altre ancora.
Le mostre dei Cavalli di San Marco e del Tesoro, dei Vetri dei Cesari, dei cartoni di Mantegna a Londra, dissepolti dopo secoli, furono successi mondiali. La mostra dei Cavalli di San Marco si prolungò sino a Londra, New York, Città del Messico, Parigi, infine Milano. Piacquero l’originalità, la maestria, l’impeccabilità allestitiva. Ne fummo tutti orgogliosi. Come olivettiani e, perché no, come italiani.
Per questo è stato ingiusto prima ancora che triste che i giornali abbiano sbrigato la scomparsa di Renzo Zorzi come una notizia obbligata. Nell’articolo, peraltro corretto, di Arturo Colombo nel “Corriere della Sera”, i redattori sono perfino riusciti a sbagliare il titolo, “il manager che divenne intellettuale”. Lo era da sempre, e da dentro. Perfetta irriconoscenza da parte degli architetti, designer e grafici, dei loro Ordini e associazioni e riviste, delle amministrazioni pubbliche. Quasi che nel secondo Novecento lo splendore culturale d’Italia non abbia avuto in Zorzi uno dei suoi più fini registi. E che la Olivetti non li abbia remunerati con infrequente generosità.
Un intellettuale che non sapeva soltanto organizzare, o dare il visto si stampi a scritti di altri. Aveva infatti narrato con ironia antiretorica la Resistenza in “500 quintali di sale” (1962, per Feltrinelli) e nei racconti dell’”Estate del Quarantadue” (1988, per Rusconi). Due anni dopo, per Marsilio, i medaglioni tra Ottocento e Novecento (“Nella trama della storia”), e poco dopo una lunga introduzione a “Sulla violenza” di Hannah Arendt. Nel 1996, per Mondadori, una monografia su Cesare Beccaria, sottotitolo “Il dramma della giustizia”. Salvo il primo libro, che per il vero aveva superiori qualità letterarie, furono benevolmente fatti scivolar di fianco, quasi fossero storie di tempi andati. Parlavano invece della nostre contemporaneità, solo che l’autore assolutamente non voleva, o forse neanche sapeva, farsi notare per un appena un po’ alto timbro di voce.
All’ultima intervista, raccolta da Manolo De Giorgi, Enrico Morteo e Alberto Saibene per la mostra torinese “Una bella società”, nel 2008, Renzo Zorzi volle far lui l’editing, benché la malattia avesse colpito lui, così amante delle arti della visione, proprio nella vista. E la dice lunga il fatto che si intitoli “conversazione” e che, leggiamo, non si dovesse fare un “chiacchiericcio, anche se forse questo è un mio difetto che nemmeno questa volta è stato smentito”. Che sia insomma, quel testo, tutto un “a levare”

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